di Vincenzo Ciardo
“La litoranea del basso Adriatico serpeggia lungo la costa pugliese scoprendo impreviste prospettive di campagne verdeggianti e solitarie insenatura dal lido ghiaioso di strapiombi e ammucchiamenti caotici di macigni, dalla cui stretta si svincolano a fatica tronchi contorti di ulivi intisichiti dalla salsedine dei venti marini. Ogni tanto la veduta serena della pianura salentina picchiettata del bianco dei paesi. Verso Otranto, venendo dal Capo di Leuca, improvvisamente il paesaggio diventa brullo e disordinato, la vegetazione si fa più rada, nell’aria ristagna una tristezza languida e rassegnata. In questo desolato scenario ebbe inizio la tragedia dell’antichissima cittadina adriatica, conclusa con lo sterminio dell’intera popolazione. Ecco la minuscola baia di Porto Badisco. Nel 1480 vi sbarcarono i diciottomila turchi di Acmet pascià, venuti dall’altra sponda ad insidiare alle spalle la potenza degli aragonesi. Su queste nude collinette sassose piantarono le tende prima di lanciarsi alla conquista della città.

«M’intimarono la resa a buoni patti – La rifiutai – Tenni da me lontano per undici giorni il nemico – Su cadaveri di dodicimila figli miei caddi – Ma due giorni dopo – Mi bastò il cuore di confortare su questo colle – Al martirio per la fede di Cristo – Altri ottocento figli miei …». Così si legge su una lapide nella chiesetta di San Francesco sul colle della Minerva, nella cui patetica semplicità è riassunta una delle pagine più drammatiche e luminose della storia delle genti meridionali. Respinte le intimazioni del pascià, i maggiorenni di Otranto gettarono in mare le chiavi della città e minacciarono di morte chiunque avesse osato parlare di resa. Seguirono le giornate angosciose dell’assedio, il dilagare delle orde mussulmane dai varchi delle mura sconquassate dalle artiglierie, i disperati corpo a corpo nell’abitato, e lo scempio finale del massacro di donne e bambini nella cattedrale sotto gli occhi del vescovo Pendinelli, colpito a morte sull’altare mentre celebrava l’ultima messa di Otranto cristiana.
Di tutto è conservato memoria nei canti popolari del luogo, coloriti via via delle aggiunte immaginose della legenda. Scendendo dal colle della Minerva si incontrano le antiche mura sbrecciate dai mortai dei turchi. Un giorno sentinella avanzata contro la minaccia dei mussulmani attestati sulle sponde albanesi, Otranto è oggi un piccolo pacifico centro di provincia che vive delle risorse del mare e della campagna, con strette viuzze silenziose che danno sulla piazza della cattedrale. Il cielo incredibilmente luminoso bene si accorda con la posatezza già un po’ orientale della vita paesana. Agli incroci delle strade, agli angoli dei portoni si vedono enormi palle di pietra, quelle medesime scagliate sulla città durante l’assedio, alla cui potenza rovinosa gli otrantini opponevano l’inutile difesa delle frecce e delle balestre. Adesso hanno la più pacifica funzione di ornamento, e quella assai meno dignitosa di paracarro. La storia si vendica come può.
Dalla Cattedrale s’irradiarono le forze spirituali della resistenza. E’ sorprendente che l’insigne monumento dell’architettura basiliano-romanica pugliese con la famosa cripta dalle quarantasette colonne di varo stile, sia tutt’ora in piedi. Caduta la città il tempio diventò stalla e lupanare, risonante di bestemmie e canti osceni, antichi affreschi vennero scrostati o coperti di sudiciume, frantumati gli altari, disperse statue e reliquie. Per fortuna il bel mosaico paganeggiante di Fra Pantaleone col simbolico albero della vita che si stende sul pavimento della navata centrale, poté sopportare tante offese senza eccessivo danno. In una cappella laterale rosseggia il masso sul quale piegarono il collo gli ottocento otrantini scampati al macello, e poi condannati a morte per aver rifiutato di convertirsi al corano in cambio della vita.
Barlabei si chiamava il carnefice. Improvvisamente folgorato dalla serenità sovrumana delle sue vittime, non volle proseguire oltre nell’orrenda carneficina e, scagliato lontano il ferro omicida, proclamò di voler abbracciare la religione di Cristo. Immediatamente trucidato, il suo sangue andò a mescolarsi con quello dei cristiani. Una targa ed un palo sul colle della Minerva ricordano il suggestivo episodio. In grandi armadi a vetri sono conservate le ossa degli ottocento martiri, alcune ancora rivestite di muscoli e tendini pietrificati, altre con i segni dei fendenti delle scimitarre e qualche spiga di grano attaccata qua e là, quasi a rammentare che la strage avvenne d’estate, al tempo della trebbiatura. Nessuna penna di letterato o fedele resoconto di cronista potrebbero uguagliare la potenza evocativa promanante dalla drammatica concretezza di quei poveri resti umani”.
Tratto da: Vincenzo Ciardo, Piccolo cabotaggio, pp. 61-63, Adriatica Editrice, Bari, 1964
Otranto terra di martiri, Otranto terra di eroi!
L’estate si avvicina, i turisti bussano alle porte delle località alla moda, le spiagge otrantine si affollano di turisti pronti a saccheggiare le gastronomie locali di ogni prelibatezza, ma quanti di loro conoscono la storia orribile di questa città. Quanti di loro, calpestando la terra arida del sud, hanno la consapevolezza di quali orrende tragedie si consumarono all’ombra delle solide mura del Castello Aragonese, oggi nella sua più recente ricostruzione avvenuta dopo le incursioni ottomane di fine XV secolo. Vincenzo Ciardo, fu un abile scrittore quando deponeva colori e pennelli per dedicarsi alla narrativa. Raccontare il Salento con l’uso della pittura fu la sua naturale vocazione, descriverne le sfumature attraverso l’uso della penna suo diletto. Due opere importanti e dense quelle prodotte durante la sua carriera: “Quasi un diario” del 1957 e “ Piccolo cabotaggio” opera, quest’ultima del 1964, dalla quale è stato integralmente estratto questo breve racconto della sua terra d’origine. Nacque e morì salentino, Vincenzo Ciardo, i viaggi e il lavoro non lo allontanarono mai definitivamente dalla sua gente. Memorie e pensieri reali di un artista che veleggiava, più di tutti i suoi contemporanei, verso il pensiero astratto esplicitato in rappresentazioni policrome o con veloci schizzi monocromo, ombre di china nera su fondali bianchi di ruvida carta. “Otranto terra di martiri” lascia trasparire molto della sua arte, descrizione fedele di una terra difficile da coltivare, da descrivere. Pochi punti di riferimento in un paesaggio distrattamente piatto, punteggiato da insenature rocciose e muretti a secco che tratteggiano irregolarmente il paesaggio, segnandone i confini incerti, a improvvise doline nascoste tra la bassa vegetazione di macchia. “Otranto terra di martiri” è un inno alla vita, speranza storica di una forza che trasuda dalla terra di una cittadina che rispose, con coraggio eroico, all’invasore turco proveniente dal mare.
Vincenzo Ciardo (Gagliano del Capo, Lecce, 25.10.1894 – 26.09.1970) fu professore di paesaggio presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Partecipò – anche con mostre personali – alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali di Roma, a varie esposizioni di arte italiana all’estero ed a quelle a carattere nazionale più importanti. Tra la critica, quella sicuramente di più elevata sintassi fu scritta da Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987) che così definì la sua arte: «La pittura di Ciardo è tra le più ricche di momenti lirici, specchia stati d’animo che vanno dal contemplativo al drammatico, dal sereno al nostalgico, sempre in una condizione interiore di cui è caratteristico l’abbandono cosciente alle suscitazioni del sentimento».
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